lunedì 2 giugno 2008

Mio padre

Livorno seconda metà dell'ottocento.
La famiglia di Nicola, commerciante all'ingrosso e uomo politico locale, viveva in maniera agiata. Avevano una bambina di pochi anni, Ida ed un maschietto da poco venuto al mondo, Paolo.
Tra moglie e marito però le cose non andavano troppo bene, al punto che un giorno (evento assai raro e coraggioso per l'epoca) la moglie decise di piantare il marito e con il piccolo Paolo si trasferì a Pisa, dove comprò casa e visse da donna separata tirando su il bimbo e
viziandolo. Era naturalmente una donna ricca di famiglia, di origine corsa , parente alla lontana del famoso patriota Pasquale Paoli.
Paolo fu allevato amorosamente e ebbe tutto quello che poteva avere un giovane di quell'epoca. Studiò, si iscrisse anche all'Università, alla facoltà di matematica, ma non si laureò. Passava la vita nella maniera più spensierata che poteva: Parigi, Lugano, e Viareggio, dove aveva anche comprato una seconda casa. Gli venne anche la passione della caccia , contagiato da un vicino di casa di Viareggio che era un padulano della zona. Con questo andazzo, anche se il patrimonio ereditato dalla madre era cospicuo, cominciò ad essere un po' a corto di soldi; si dette allora da fare per trovare una moglie con dote e riuscì nell'intento sposando tale Giulia Del Guerra di Firenze. Non era una bellezza e anche non più giovanissima, ma tant'è.... Anche Paolo non era più giovanissimo e pertanto: affare fatto.
Da quel momento la sua vita cambiò radicalmente, mai più viaggi e soggiorni all'estero, chiuse anche con la caccia e tutto ciò fa pensare che la moglie lo avesse completamente sottomesso.
Da questo matrimonio tardivo (almeno per l'epoca) nacque Francesco e per i due fu una gioia immensa. Era il febbraio del 1895.
Mia nonna - Francesco infatti era mio padre - non aveva latte e quindi ebbero subito le prime difficoltà. Il bimbo fu allattato per alcuni giorni da una conoscente che abitava vicino e che aveva avuto un bimbo pochi giorni prima; nel frattempo mio nonno col calesse batteva le campagne pisane e lucchesi alla ricerca di una balia, che alfine trovò e portò a casa.
Francesco (in famiglia fu chiamato però Cecchino) fu allevato amorevolmente e trattato naturalmente da figlio unico e tale rimase.
Era un bimbo assai sveglio e intelligente e appena ebbe modo di studiare e staccarsi un pochino dall'amore morboso della mamma divenne un ottimo studente; fece il classico e si iscrisse a Scienze Naturali, laureandosi a pieni voti.
Era appassionatissimo della natura e di tutto ciò che lo circondava e profondo osservatore.
Il suo babbo, che aveva dovuto smettere di andare a caccia per ubbidire alla moglie, ottenne dalla stessa il permesso di instradare all'arte venatoria il figlio e quindi, anche se in maniera ridotta, perché non godeva di buona salute, fece sì che mio padre divenisse cacciatore.
E che cacciatore! La caccia divenne per lui la grande passione della sua vita e l'ha praticata fino a quando è stato in grado di reggere un fucile, coadiuvato anche da noi figli con i quali, e con me in particolare, ha avuto un rapporto meraviglioso più da amico che da genitore.
Ma tornando a mio padre giovane, si trovò anche a dover andare a fare il soldato durante la prima guerra mondiale. Divenne sottotenente dei Granatieri e inviato, appena uscito da un corso accelerato presso la Accademia Militare di Modena, a Verona nelle retrovie. Riuscì per sua fortuna a non andare al fronte e grazie alla sua natura un po' gracile ad ottenere di essere riformato. E' evidente che in tempo di guerra, la prima visita per l'ingresso in accademia era stata assai affrettata, col bisogno di truppe che c'era.
Tornato a Pisa in famiglia terminò gli studi con una tesi in geologia e rimase per circa dieci anni assistente presso tale istituto alla facoltà di Scienze Naturali. Ottenne anche la libera docenza in paleontologia, ma per motivi contingenti, non riuscì ad avere una cattedra universitaria.
Nel frattempo si era innamorato di mia madre Tecla che sposò nel '28. Fu un matrimonio felicissimo e si può dire che sono stati innamorati per tutta la vita.
Nel '30 nacqui io, nel '34 Carlo e nel '43 Antonio.
Nel frattempo, esattamente nel '32, mio padre aveva vinto il concorso per insegnante di scuola media superiore e da allora divenne il prof. Caterini di scienze naturali all'Istituto Magistrale di Pisa.
I suoi studi però continuarono e si dedicò in particolare alla ornitologia che era un compendio notevole alla sua passione per la caccia.
Era un uomo simpaticissimo, un po' orso, ma una volta superato il primo momento se si trovava in buona compagnia, era molto piacevole frequentarlo. Tutti quelli che lo conoscevano lo stimavano e gli volevano bene; in primo luogo i suoi allievi delle Magistrali.
Per i figli, e in particolare per me, era il padre ideale. Più amico che padre. Mi ha insegnato più lui di tutti gli anni che ho passato sui banchi di scuola; e non solo la sua materia, ma tutto quello che poteva servirmi nella vita e lo faceva con una naturalezza eccezionale. Era un insegnante fantastico. Non ti faceva mai pesare il suo sapere e ti metteva sempre al suo livello.
Nelle lunghissime ore che ho passato con lui sia da solo, sia con tutta la famiglia o in compagnia di amici o parenti, moltissimi sono gli episodi da raccontare, molti dei quali molto divertenti. Infatti egli vedeva sempre il lato bello della vita e anche le gaffes che faceva (era molto distratto e sempre con la testa che inseguiva i propri pensieri) le raccontava in seguito ridendoci sopra e facendo divertire chi lo ascoltava.


Estate 1952
Subito dopo guerra mio padre, che già prima del conflitto aveva posseduto una Balilla 3 marce e aveva imparato a guidare solo nel '38, acquistò, usata, una Balilla 4 marce, che era venuta fuori dalla guerra in non buone condizioni, ma che era ancora in grado di fare il suo dovere, specialmente se trattata con garbo. Io avevo preso la patente a fine '49 e avevo un'esperienza di guida relativa.
Una mattina di agosto del '52 tutta la famiglia partì a bordo di detta Balilla con destinazione Dolomiti e più precisamente l'albergo - rifugio di Prato Piazza ad oltre 2000 metri di quota, sopra Braies, dove era stato prenotato dai miei un periodo di soggiorno.
La carica sulla povera Balilla fu enorme. Mia madre infatti è una persona che porta dietro di tutto, compreso il superfluo e poi in montagna, a quella quota, fa freddo e quindi roba da estate e roba da inverno, più scarponi, che all'epoca era grossi e pesi. Inoltre i passeggeri: mio padre, mia madre, i miei due fratelli : Carlo diciottenne e Antonio di soli nove anni ed io. Da tenere presente, bimbo a parte ,le altezze ragguardevoli dei componenti il nucleo familiare: babbo metri 1,85, Carlo altrettanto, mamma 1,70 ed io infine di due metri.
Si può immaginare l'impegno e lo stress di quel povero vecchio motore!
La partenza da casa della famiglia Caterini in macchina per le vacanze è sempre stato un classico e anche quella seguì il solito copione.
Mio padre stabiliva un orario di partenza che doveva essere rispettato perché aveva calcolato il percorso e la probabile media che avremmo tenuto per portare a compimento la prima tappa che nella fattispecie doveva essere e fu Brescia. Mia madre però ha sempre avuto l'abitudine o il vizio, a seconda dei punti di vista, di non essere mai puntuale; anche perché il compito di fare i bagagli a chiuderli era suo, per sua volontà. Non si fidava degli altri che tendevano a portar dietro meno cose. Mio padre già dalle prime ore dell'alba era giù in giardino ad armeggiare con la macchina in attesa di poter fare la carica, aiutato dal sottoscritto, che , lo devo dire, ha un carattere molto simile al suo.
Appena mio fratello ed io iniziavamo a scendere da casa con le prime valigie cominciava il rito della legatura sul portabagagli del tetto dell'auto. Allora non esistevano ancora le corde elastiche e pertanto il tutto doveva essere ben legato con corde normali e mio padre, assai pignolo, faceva più nodi possibile e tirava in maniera esasperata. Dopo la legatura, per babbo si poteva partire, mentre mamma doveva prepararsi e finire di vestirsi; allora babbo si attaccava al campanello di casa e chiamava a gran voce: "Tecla, fai presto che è tardi" svegliando tutto il vicinato.
Finalmente, dopo aver controllato per l'ennesima volta che la casa fosse ben chiusa, si partiva.
Quell'anno, per andare a Prato Piazza avevamo stabilito di fare due tappe e la prima fu appunto Brescia dove arrivammo felicemente nel primo pomeriggio, dopo pranzato per strada tipo picnic. Brescia fu visitata da turisti e quindi fu preso alloggio in albergo con i soliti miei problemi di letto data la mia altezza; ma comunque tutto andò per il meglio.
La mattina seguente da Brescia inizio della seconda tappa. Secondo le carte del T.C.I, allora in nostro possesso, Prato Piazza poteva essere raggiunto solo da Braies Vecchia (dove era anche la direzione dell'albergo - rifugio da noi prenotato e un grosso albergo), perché da Carbonin vi era solo una "strada militare". Pertanto dopo aver attraversato Cortina, passammo per Carbonin diretti a Dobbiaco e poi a Braies senza neanche prendere in esame la strada militare che ci avrebbe portati direttamente a Prato Piazza; anche perché mio padre era convinto che dovevamo presentarci a Braies all'albergo principale. E qui comincia il calvario.
La Balilla aveva già superato con fatica il valico della Cisa durante il primo giorno di viaggio e quindi le prime salite per arrivare a Cortina e non era, come ho detto, in gran forma. Per arrivare all'ingresso dell'albergo a Braies, c'era uno strappo in salita con forte pendenza ed io, che ero alla guida in quel momento, capii che difficilmente la macchina lo avrebbe superato. Sulla spianata dell'Hotel, piena di sedie e tavolini, erano seduti diversi turisti, per lo più tedeschi o austriaci che guardavano incuriositi la nostra macchina stracarica impegnata sulla salita. Ad un certo punto non ce la fece più e mio padre scese, facendo finta di sgranchirsi le gambe; niente da fare. Non si andava avanti ugualmente; allora da terra ordinò, con la sua voce tutt'altro che flebile, prima a mia madre a poi a mio fratello di scendere a loro volta. Finalmente riuscii a portare la macchina sullo spiazzo tra le risatine dei turisti presenti e mio padre che diceva tra i denti:" Soliti tedeschi, teste di cazzo!"
A questo punto babbo si recò alla reception dell'albergo, ma il titolare ci venne incontro, e sempre sul piazzale, avvennero le presentazioni.
Da notare che mio padre di fronte a stranieri e in questo caso ad altoatesini di lingua tedesca, parlava sempre cercando di imitare il loro italiano e quindi con tono di voce gutturale e verbi all'infinito.
"Questa essere mia moglie - disse - questo essere mio grande figlio, questo essere altro mio figlio, questo essere mio piccolo figlio"
Mia madre ed io non sapevamo come fare a non scoppiare a ridere, ma in un certo senso ce lo aspettavamo. Poi chiese informazioni sullo stato della strada che conduceva a Prato Piazza e gli fu risposto chiaramente che con la nostra macchina, a causa della forte salita, sarebbe stato impossibile arrivarci. Mio padre però non si fece convincere e rispose che ce l'avremmo fatta e poi rivolto a noi: "Andiamo che si fa buio."
Partimmo subito e dopo pochi chilometri iniziò la forte salita annunciata in una stradina a fondo naturale e scivolosa per le quotidiane piogge tipiche della montagna. La Balilla cominciò a dare i primi segni di insofferenza e dopo pochi metri fece intendere che non ce la faceva più.
A questo punto babbo ordinò di cominciare a scendere e di proseguire a piedi. Nel giro di pochi metri rimasi io solo al volante, ma nonostante ciò la macchina non ce la faceva ad avanzare; allora mio padre, Carlo e anche mamma presero ciascuno una valigia dal portabagagli del tetto, dopo una nutrita sequela di moccoli a causa della legatura con nodi strettissimi voluta da babbo. Proseguii ancora per poco, ma alla fine non ci fu più niente da fare. La decisione fu di fare dietro front, ricaricare tutto, persone comprese, e ritornare in discesa all'albergo di Braies. Così fu fatto e all'arrivo i soliti turisti fecero ancora i soliti risolini e noi fummo costretti a pernottare lì. Il mattino seguente ci portarono a destinazione con una macchina dell'albergo e la Balilla rimase in un fienile in attesa di ripartire per il ritorno a Pisa.
Quando fummo a Prato Piazza ci accorgemmo che la strada migliore era quella proveniente da Carbonin poiché tutti i clienti dell'albergo salivano da lì e arrivavano tranquillamente con le loro auto.


Vignale anni 50
A Vignale, nella riserva del marchese Pinelli, mio padre ed io ci andammo tutti contenti , anche se eravamo invitati a pranzo in fattoria dallo stesso marchese; cosa che comportava un abbigliamento, sì da caccia, ma nello stesso tempo presentabile anche a tavola.
Mio padre per l'occasione sfoggiò, sopra ai soliti pantaloni alla cavallerizza con stivali di vacchetta, un nuovissimo blusotto in pilorre, acquistato per l'occasione da Maccari. Io invece, la cacciatora, che però era abbastanza nuova e quindi in buone condizioni.
La caccia era a tordi e merli assai abbondanti in quel periodo (era febbraio) nella riserva della Sterpaia. Cacciavamo girando per il bosco rado e fermandoci di tanto in tanto sugli spiazzi e sulle piazzole delle carbonaie. Sparavamo spesso e le vittime aumentavano. Mio padre, che aveva sempre bisogno della mia assistenza per ritrovare i tordi abbattuti, mi chiamava in continuazione perché lo aiutassi in quei recuperi. Ai suoi ripetuti richiami, che erano urla possenti, mi avvicinai a lui che era piazzato su di una carbonaia e aveva abbattuto cinque o sei tordi senza raccoglierli per paura di perdere il momento favorevole;
glieli raccolsi in breve tempo, perché anch'io non volevo perdere i tiri e quindi glieli porsi perché se li mettesse in tasca o allo strozzino.
Non mi ricordavo però che lui non aveva lo strozzino alla vita per paura di sporcarsi di sangue i pantaloni e il suo giubbotto nuovo fiammante non aveva la tasca posteriore: "la catana".
Quindi, mentre insistevo perché mi levasse di mano i suoi tordi morti, mi sentii rispondere a tutta voce: " Dove vuoi che mi li cacci, in culo!" In quel momento sbucò sulla carbonaia da un viottolo del bosco il guardiacaccia che avevamo lasciato all'inizio della battuta e con un lieve risolino domandò:" Professore si diverte?"


Circondate il macchione !
Durante la guerra eravamo sfollati a Suvereto, paese natale di mia madre , dove lei possedeva un po' di terra , che ci avrebbe consentito, oltre ad essere al riparo dai bombardamenti di avere anche a disposizione generi alimentari.
Mio padre, vecchio tiratore di strombola fin da ragazzo, aveva istruito all'uso di quell'arma primitiva, sia noi suoi figli (Carlo ed io), sia nostro cugino Francesco e quasi tutti i giorni battevamo le campagne alla ricerca di prede per le strombole. Per lo più, dette prede, erano piccoli uccellini, spesso da poco usciti dal nido, e quindi meno furbi, ma i risultati non erano poi eccezionali, tenendo conto della difficoltà di colpire con un sasso un essere così piccolo.
Talvolta mio padre si univa a noi ragazzi ed era il nostro maestro che ci insegnava a riconoscere gli uccelli, le piante e tutto quello che la natura poteva mostrarci.
Quella mattina di inizio estate era appunto venuto con noi tre a giro con le strombole e, ben distante da un gruppo di case coloniche , avvistammo un galletto, ancora in tenera età, evidentemente perdutosi, che si aggirava nei pressi di una siepe. Babbo dette subito l'ordine:
" Circondate il macchione!" Così facemmo ubbidienti al genitore, indi scacciammo il pollastro verso di lui che lo abbattè con la sua arma.
Fu subito fatto sparire in tasca e rientrammo a casa trionfanti.
Questo era mio padre, un grande uomo rimasto ragazzo per tutta la vita.


Dove andate....!!!!
Il primo inverno di sfollamento a Suvereto fu quello del 43/44 e mio padre naturalmente lo passava, appena poteva, andando a caccia.
Portava con sé, se eravamo liberi da impegni scolastici, i figli e mio cugino Francesco; e noi, ben lieti, lo aiutavamo come potevamo nelle sue imprese venatorie. Da notare che io, il più vecchio, avevo solo 13 anni, Francesco 10 e Carlo 9. Questo per dire che eravamo più portati al gioco che non all'impegno venatorio vero e proprio.
Una mattina partimmo a piedi da Suvereto per andare a fare le scaccette a tordi e merli nelle piccole macchie che si trovavano alle spalle del paese, sulle prime colline. Le scaccette consistevano nello indirizzare verso mio padre, appostato opportunamente, gli uccelli scacciandoli appunto con schiamazzi e lancio di sassi nelle macchie.
Era necessario che babbo prima si piazzasse nel posto prescelto e poi, ad un suo segnale, noi partivamo circondando se possibile la macchia e cercando di fare affluire i merli e i tordi nella sua direzione. Quella mattina avevamo già effettuato un paio di scacce con esito direi buono e ci apprestavamo a fare la scaccia alla "macchietta del Lepri", ritenuta da mio padre il top della situazione. La macchia però era una delle più grandi e non si poteva effettuare la scaccia, se non entrandoci dentro affiancati, urlando e andando verso mio padre. La cosa sembra facile a dirsi, ma per tre bambini, o quasi, fu invece normale sbagliare direzione; ossia perdere l'orientamento dentro il bosco ed uscire di lato, anziché dalla parte dove era appostato babbo.
Appena ci vide uscire dal bosco dalla parte sbagliata, dopo aver visto un paio di merli uscire poco prima di noi, ma per l'appunto da quel lato e con da parte sua l'impossibilità di sparagli, esasperato per l'accaduto, (a caccia non ammetteva errori) inveì contro di noi, apostrofandoci:
"Dove andate teste di cazzo!"
Frase che è rimasta immortalata nella mente di mio cugino Francesco, che non aveva mai sentito niente di simile, specialmente in bocca ad un professore stimato dalla sua famiglia e da suo padre, che invece era un persona educatissima e che mai e poi mai avrebbe detto qualcosa del genere.


Topa, cazzo, fia.....
Sempre durante lo sfollamento, Francesco, Carlo ed io cercavano di passarcela nel modo migliore. L'incoscienza dell'età non ci faceva certamente pensare al tragico periodo che stavamo attraversando e quindi per noi vivere in paese in piena libertà, poter andare in strada a giocare a qualsiasi ora del giorno, era il massimo; specialmente dopo aver vissuto in città, dove non potevamo uscire se non accompagnati da un adulto. Eravamo anche dei monelli e facevamo cose che certamente non deponevano a nostro favore: come tirare strombolate a cani e gatti, polli e piccioni e spaccare vetri di finestre e lampioni.
Passavamo anche molto tempo in casa a giocare sia nella mia che in quella di mio cugino e durante uno di questi periodi ci venne l'idea di scrivere un giornalino per ragazzi. La prima cosa da decidere fu il titolo e optammo appunto per:
"Topa, cazzo, fia son tre cose d'allegria.
Topa , fia , cazzo sono cose da ragazzo".
Poi occorreva un direttore responsabile e in quella casella scrivemmo: Paolo Caterini, il vice : Francesco Parducci , disegnatore: Carlo Caterini.
Il contenuto, che qui non sto a descrivere, anche perché non ricordo bene, era un insieme di filastrocche e canzoncine oscene piene dei termini sia del titolo che di tutto il nostro repertorio scurrile di quell'età. Carlo fece alcuni disegni osceni, effettivamente impensabili per un bambino di soli nove anni, anche se aveva una certa predisposizione per il disegno.
Tutto il nostro lavoro fu presto dimenticato, ma invece di distruggere il foglio, questo fu riposto sopra un alto scaffale in casa di mio cugino, con l'idea, forse, di integrarlo in seguito. Invece così non fu.
Alcuni mesi dopo, durante le pulizie di Pasqua, la mamma di Francesco trovò il famoso giornalino ed esterrefatta nel leggere quelle oscenità si precipitò a casa da mia madre (la madre del direttore responsabile) a chiedere giustizia previa congrua punizione nei miei riguardi; oltretutto ero anche il più vecchio dei tre con i miei 13 anni.
In quel momento noi eravamo in giro per il paese ignari di tutto e al mio ritorno a casa fui investito da mia madre e accusato di aver fatto cose inaudite e avere trascinato nel fango anche i bambini più piccoli.
Mio padre quel giorno era andato a Pisa e sarebbe rientrato solo a tarda sera. Pertanto mamma mi minacciò che appena tornato ci avrebbe pensato lui a punirmi.
Passai tutto il pomeriggio in preda alla paura e senza poter contattare mio cugino, al quale la madre aveva proibito di vedermi e di frequentarmi.
Cenammo, e noi bimbi andammo a letto. La nostra camera era di passaggio e i miei genitori, per andare nella loro passavano di lì.
Naturalmente non riuscii a prendere sonno e aspettavo terrorizzato il ritorno di mio padre. Questo avvenne verso mezzanotte ed allora con l'orecchio teso, (le porte erano socchiuse) stetti ad ascoltare il colloquio tra i miei genitori. Mamma raccontò l'accaduto a babbo completamente scandalizzata del nostro "capolavoro", mostrandoglielo.
Lui lo scorse perché ci fu qualche minuto di silenzio e poi disse a mia madre: " Oh Tecla, non prendertela troppo e dillo anche a Vera, sono cose da ragazzi che sono sempre avvenute anche ai miei tempi e che sempre avverranno". E nessuno più sfiorò l'argomento.


A Colombacci
Tutti i mesi di ottobre degli anni cinquanta, mio padre riusciva ad ottenere dai duchi Salviati, proprietari della tenuta di Migliarino, almeno due permessi di caccia ai colombacci da un palco sui pini della magnifica riserva.
Nel '57, ero da poco fidanzato con Anna, che studiava a Pisa ed alloggiava dalle suore. Una domenica c'era l'invito ai colombacci ed io non volevo rinunciare né alla fidanzata, né alla caccia. Pertanto decidemmo di portare anche lei (mio padre era d'accordo; era già molto affezionato ad Anna e poi, iniziarla alla caccia, era per lui fonte di soddisfazione). Le suore erano d'accordo anche loro, perché mio padre era conosciuto a Pisa come una persona serissima, e quindi la mattina ,poco dopo le cinque, andai a prelevarla.
A casa bevemmo il caffè e poi via. Arrivati sotto il pino ai piedi della scala che conduceva al palco, Anna disse che non ce l'avrebbe fatta a salire fin lassù, ma la convinsi descrivendole il panorama che si sarebbe perso e poi che non poteva fare una figuretta davanti a babbo. Anche se a malincuore si decise a salire con me dietro che la proteggevo e quando fu sopra il palco non si pentì. Era una giornata bellissima e lo sguardo spaziava dai monti al mare e poi la distesa verde della pineta sembrava un prato sospeso nell'aria. Una vista da non perdere.
Cominciarono a passare i colombacci e ci furono i primi morti; oltre a babbo e me c'era anche Carlo a sparare e Antonio, non ancora in età da porto d'armi, che era per lo più a terra addetto al recupero delle prede . Dopo un po' anche Anna volle scendere a terra e rimanemmo sul palco Carlo ed io, mentre mio padre non era ancora salito e si dedicava, con Antonio, alla ricerca dei caduti.
Dal palco era nostra abitudine segnalare la direzione di caduta dei colombi abbattuti lanciando i bossoli delle cartucce sparate e così stavamo facendo in quel momento. L'ultimo colombaccio abbattuto era caduto assai vicino al nostro appostamento e certamente colpito a morte; quindi io e Carlo ci meravigliavamo del fatto che né babbo, né Antonio riuscissero a trovarlo. Per segnalare ancora meglio il punto di caduta, seguitavamo a lanciare bossoli urlando, specialmente io, che doveva essere lì per forza:
" E' lì, è lì, deve essere lì per forza!"
Anna da sotto cercava di coadiuvare la ricerca e si trovava vicina a mio padre, ma con un macchione di mezzo che glielo copriva alla vista. In quel momento sentì babbo che, esasperato dalle nostre grida e non riuscendo a trovare il colombaccio diceva a mezza voce: "Qui non c'è una sega!" Anna non si scandalizzò, ma rimase colpita da tale espressione in bocca ad uno stimato professore.
Il colombaccio era effettivamente lì, ma rimasto impigliato nei rami di un leccetto a tre o quattro metri da terra.


DISTRAZIONI
Erano una caratteristica di mio padre. Gli capitava spesso di commetterle. Poi ci rideva lui per primo e ce le raccontava. Famoso rimase il suo detto: "Tanto son poco bischero io", che invece intendeva dire: "Non sono mica bischero io". Era entrato nel lessico familiare, per dirla alla Ginzburg.

Una volta eravamo lui, mio fratello ed io in cima a un pino a caccia ai colombacci nella famosa riserva Salviati. Mio padre non riusciva a ricordare il cognome del guardiacaccia che ci aveva accompagnati e quando non gli veniva in mente un nome rimuginava in sé stesso finché non lo ricordava. Quella mattina tra lui e noi, che cercavamo di aiutarlo, tirammo fuori una sequela di nomi che non andavano bene. Finalmente a babbo gli tornò improvvisamente alla memoria, e a quel punto, con la sua voce potente esclamò
"Ecco come si chiama - e a squarciagola - Cesqui!!!" Da sotto il palco il guardiacaccia, che era tornato a trovarci e se ne stava zitto, zitto e fermo per non disturbarci, disse:
"Mi comandi professore"

Nel 1960, dopo un permanenza a Taranto per lavoro, io e famiglia (era nato Francesco e quindi la famiglia era di tre persone) ci dovevamo trasferire in Toscana e in un primo momento sembrava che dovessi avere come sede Lucca. Erano i primi di agosto ed io ero in missione a Catania, mentre Anna col bimbo mi aspettava dai miei a Pisa.
Un pomeriggio andarono a Viareggio in macchina: i miei genitori, Anna e Francesco per cercare casa; Viareggio infatti, come clima, era preferibile a Lucca. Si recarono in una agenzia immobiliare per vedere cosa offriva il mercato degli affitti. L'agente fu molto gentile, mostrò loro diverse soluzioni e rivolto a mio padre disse: "Non si preoccupi, vedrà che sarò in grado di accontentare sua figlia". A quel punto mio padre rispose:
"La ringrazio, ma non possiamo impegnarci perché dobbiamo prima sentire mio genero, che attualmente è in Sicilia". Mia madre ed Anna appena fuori dell'agenzia scoppiarono a ridere e mio padre guardandole disse: "Mi sembrava di aver detto qualcosa di strano".

Mio padre, quando era insegnante, usciva sempre di casa portando con sé una borsa da avvocato nera dove teneva tutto quello che poteva essergli necessario. Era un bella borsa in pelle perché gli sono sempre piaciute le cose belle e anche nel vestire era sempre molto elegante. Per entrare in macchina e aprirla con le chiavi, era solito appoggiare tale borsa sopra il tetto della macchina. Per ben due volte, ma forse anche più perché si vergognava ad ammetterlo, è partito lasciando la borsa in bilico sul tetto, che poi andava persa. Per non fare arrabbiare mia madre ne ricomprava un'altra identica, che dopo poco faceva la stessa fine

Quando da molto tempo non incontrava una persona, mio padre decideva che doveva essere morta. "Sai Tecla, è tanto tempo che non vedo il tale, dev'essere morto". Mia madre ribatteva :"Ma come fai a dirlo, lo avremmo saputo". Ma lui se ne convinceva e se dopo un po' gli capitava di incontrare il presunto morto, tornava a casa e diceva:
" Ma lo sapete che il tale è sempre vivo, l'ho visto in città che andava via in bicicletta tutto arzillo". E ne era felice.

Nel periodo dello sfollamento a Suvereto, durante la guerra, quando dopo l'8 settembre eravamo in pratica occupati dai tedeschi, mio padre, non potendo più andare a caccia perché avevano requisito tutte le armi (anche se lui le aveva imboscate consegnando un fucilaccio acquistato appositamente per poche lire), si ingegnava in vari modi per catturare qualche preda. Tendeva con la civetta e i panioni, andava con la retina all'acqua durante la stagione secca e tendeva spesso le tagliole, sia nel bosco, sia al prato quando in febbraio-marzo i tordi e merli vanno al "raspo"
Una mattina dei primi di marzo del '44 aveva per l'appunto teso una ventina di tagliole in un pratino circondato da siepi, dove erano soliti scendere tordi e merli. Dopo avere disposto le tagliole con per esca dei grossi "gramignoli" assai appetiti da tali volatili, si era sistemato a lato del campo, mezzo nascosto nella siepe, in attesa di vedere qualche uccello rimanere alle tagliole.
Ad un certo punto vide dalla parte opposta del campo un movimento di frasche; osservando meglio si accorse trattarsi di una squadra di soldati tedeschi in esercitazione, armati di tutto punto e con gli elmetti mimetizzati, che avanzavano strisciando sulla pancia e stavano per entrare nel campo di "mio padre". Senza pensare a quello che faceva, uscì di scatto dal suo nascondiglio e andando incontro ai tedeschi cominciò ad urlare:
"Actung, actung, trappel, trappel vogel, actung!!!" nel suo tedesco elementare che sosteneva di sapere. E per dare maggior peso alle sue parole, con un piede fece scattare una tagliola A quel punto, c'era da attendersi qualsiasi reazione, dato anche il particolare periodo storico, invece per sua fortuna, il comandante del reparto dette un ordine e la pattuglia deviò, sempre in assetto di guerra, lasciando libera la tesa di mio padre.

Qualche mese dopo, quando ormai il fronte era vicino, e i tedeschi facevano affluire le loro ultime risorse passando per l'interno, e quindi anche per Suvereto, per evitare i continui mitragliamenti della aviazione alleata, eravamo tutti assai in allerta e , specie a buio, con l'orecchio teso per percepire qualsiasi rumore. Una sera sentimmo fermare sotto le finestre aperte alcuni automezzi e parlottare in tedesco. Mio padre, curioso per natura, si affacciò e vedendolo, un soldato tedesco gli chiese: "Hospital, bitte hospital." Ospedali in zona non ce n'erano, pochi metri più avanti, rispetto a casa nostra, c'era un'indicazione in tedesco ad uso dei militari con tanto di croce rossa e la scritta (non so se era proprio questa): AUF VERBAND PLATZ, che mio padre sosteneva voler dire: POSTO DI MEDICAZIONE. Pertanto, rispondendo alla domanda del tedesco, mio padre, convinto di esprimersi in germanico, disse: " Nich hospital, aber auf verband platz. Furst strasse rechte band"
che secondo lui voleva dire: "Niente ospedale, ma posto di medicazione. Prima strada a destra". Il tedesco sconsolato gli rispose: "Non capiesco!"


Nell’immediato dopoguerra mio padre aveva acquistato un ciclomotore, stufo di pedalare in bicicletta. Si spostava continuamente sia in città , e Pisa a quei tempi era l’ideale sia per la bici che per il motorino, sia in campagna per andare a caccia , o alla ricerca di posti per la caccia. Io ero il suo compagno preferito, anche perché non gli piaceva andare in giro da solo, e avendo io solo la bicicletta, avevamo escogitato il sistema del traino. Ossia lui avanti in motorino (un Mosquito Garelli di pochi CV, con la trasmissione a rullo sul copertone della ruota posteriore che aveva applicato alla sua vecchia bicicletta) ed io dietro in bici attaccato con una corda al suo motorino. Per precauzione tenevo la corda in mano in modo da effettuare uno sganciamento rapido in caso di pericolo. Era sempre andato tutto bene ed era già un anno che giravamo in quel modo.
Una mattina di settembre decidemmo di andare in bonifica di Vecchiano a sparare ai prispoloni. Partimmo presto, come al solito quando si va a caccia, e arrivati quasi a destinazione prendemmo un viottolino. Arrivammo così ad una salitella che immetteva su di un ponticello stretto quanto il viottolo, mio padre l’affrontò senza il dovuto abbrivo e, anche se io mi ero opportunamente sganciato, il motore si piantò nel bel mezzo del ponticello senza sponde. Mio padre, già incazzato, mise con violenza il piede sinistra a terra; la spinta fece sì che dovesse di conseguenza appoggiare il destro, ma sotto il piede non c'era che il vuoto. Precipitò, dapprima su di un ripiano (il tutto in terra battuta) , dove si fermò il motorino, lui rimbalzò e finì nel fosso scomparendo sott’acqua.
Mi precipitai a soccorrerlo e lo vidi riemergere (l’acqua gli arrivava alla vita) che sputava quell’acquaccia motosa e naturalmente smoccolava. Non si era fatto niente, ed era solo preoccupato di perdere la mattinata di caccia. Aveva la doppietta a tracolla che si tolse stando sempre a mollo, me la porse ed io la rovesciai perché era piena d’acqua. Lo aiutai a risalire e subito cominciò ad avere freddo, perché, pur essendo settembre, erano le sei di mattina. Ci dirigemmo ad una vicina casa di contadini dove gli dettero panni asciutti, lo rifocillarono, gli misero i suoi vestiti ad asciugare e ci dissero che gli era andata bene perché solo pochi giorni prima erano state portate via, da dove lui era cascato, le macerie del vecchio ponte in muratura distrutto dalla guerra. Naturalmente non perdemmo la mattinata di caccia e al ritorno dai contadini, si ricambiò e facemmo ritorno a casa.


Nel febbraio del ’46 erano pochi mesi che eravamo rientrati dallo sfollamento ; in pratica dall’inizio dell’anno scolastico, ed io frequentavo la seconda liceo scientifico. Ero diventato grande amico di Giacomo Donato con il quale avevo frequentato tutte le elementari e me lo era ritrovato in classe al liceo. La sfollamento mi aveva insegnato a vivere molto fuori casa e così seguitavo a fare anche a Pisa; anche a Giacomo piaceva molto andare in giro ed eravamo diventati un coppia affiatata e un po’ monelli.
Un sera, era già buio, tornavamo a casa dalla città e passavamo per la piazza del Duomo; davanti a noi camminavano, ma a notevole distanza due “segnorine”, che erano prostitute che andavano con gli americani . Avevo con me la strombola (residuo dello sfollamento) e mi venne la voglia di tirare un sasso verso le due che ci precedevano. La distanza era notevole e non pensavo assolutamente di colpirle, ma lo feci così, solo per gioco. Sfortuna volle che invece una di loro venisse colpita dal mio sasso (io ne dubito ancora, perché altrimenti le avrei fatto male sul serio, ma lei sostenne il contrario).
Cominciò ad urlare dicendo che avrebbe detto tutto al suo americano, che risultò essere della Military Police. Proprio in quell’istante passò il poliziotto a bordo della sua jeep, e lei lo avvertì.
Noi nel frattempo cercavamo di corsa di raggiungere casa mia, che era abbastanza vicina, ma l’americano ci tagliò la strada con la jeep costringendoci tra muro e macchina. Scese velocemente e cominciò a picchiarci. Il Donato prese un manrovescio che lo buttò per terra e, mentre il poliziotto mi teneva fermo colpendomi, si rialzò e riuscì a raggiungere casa mia per dare l’allarme. L’americano mi urlava: “Come here in Jeep”, mi buttava sul sedile del passeggero e, mentre lui faceva il giro per andare al volante, io scappavo e lui mi riprendeva, finché estrasse la pistola e me la puntò in un fianco.
Nel frattempo mio padre e mia madre erano sopraggiunti in mio aiuto, ma erano arrivati anche altri americani della M.P.. Mio padre, che cercava di far capire che ero un ragazzo e che non c’era bisogno di trattarmi in quel modo, si prese un cazzotto e finì per terra. Alla fine gli americani riuscirono a caricare in jeep me, mio padre e la “segnorina” e ci condussero al comando. Qui interrogatorio mezzo in inglese e mezzo in italiano e altre botte nei miei confronti. Dopo tre o quattro ore, e dopo aver stilato un verbale in inglese, dove io negavo quanto avvenuto nei confronti della donna, anche perché aveva fatto sparire la strombola al momento dell’arresto, buttandola in un giardino, ci rilasciarono.
La mattina dopo, nonostante tutto, andai a scuola ed il Donato ed io raccontammo il tutto a compagni e insegnanti ed io mostrai anche i lividi delle botte e più che altro un livido nel fianco causato dalla canna della pistola. Ci sentivamo due eroi.
La cosa sembrava finita con la fine dell’occupazione americana, invece, dopo alcuni anni, fui citato in pretura con l’imputazione di tentato assalto ad una donna e mio padre per resistenza a pubblico ufficiale. Il Donato citato come testimone. Mio padre si spaventò molto e si procurò un avvocato. Finì tutto in una bolla di sapone; la parte lesa non si presentò e fummo assolti con formula piena .


Nel maggio del ’46 con mio padre andavamo la domenica al Calambrone a caccia di uccelli da collezione. Lui, ornitologo, era molto appassionato a procurarsi alcuni esemplari per la raccolta di uccelli imbalsamati che possedeva, ed in maggio, sul mare, erano di passo alcune specie che in altri periodi non era possibile incontrare. Aveva un permesso speciale per tali catture ed io ero solo accompagnatore.
Per andare al Calambrone da Pisa la via più corta con la bicicletta era quella di seguire il corso del canale dei navicelli che dalla darsena finiva appunto al Calambrone. Lungo tutta la sua sponda vi era un viottolo che serviva per l’alzaia, il traino da terra dei barconi con gomene da parte dell’uomo. Viottolo, che con la bici percorrevamo molto agevolmente perché ben tenuto e che ci faceva guadagnare diversi chilometri. Una domenica andammo quindi con le bici per questa stradina fino al mare e il viaggio dell’andata andò benone
Il percorso attraversava la pineta di Tombolo dove gli americani aveva impiantato la famosa base di Camp Derby e in quel periodo era in piena efficienza e quindi affollatissima di militari americani.
Al ritorno, mentre passavamo per Tombolo sul nostro viottolo, mio padre avanti ed io dietro, improvvisamente trovammo un tratto del viottolo fortemente bagnato e lo attraversammo in bicicletta, avvertendo nel contempo un puzzo nauseabondo tipico del pozzo nero. Era proprio tale liquame e scorgemmo sopra l’argine del canale un autobotte con due negri che se ne stavano andando dopo aver scaricato quella schifezza. Io che era dietro presi in faccia gli schizzi provocati dalla bici di babbo, le bici furono quasi bloccate dalla massa di roba semisolida che si era incastrata tra ruote e freni e il puzzo era tremendo. Scendemmo, dopo aver attraversato quella porcheria e cercammo di lavare le biciclette nel canale e di ripulire anche noi alla belle e meglio; quindi di nuovo in sella e di corsa a casa a farci una bagno, con nel naso il fetore che non ci voleva abbandonare.
Tipica fu la frase di mio padre appena giunti a casa: ” Tecla, siamo entrati nella merda di negro!”


Durante la permanenza a Suvereto per lo sfollamento, ci recavamo in giro sia a piedi, che in bicicletta, ma talvolta anche in barroccino. Mio padre non lo guidava ed era mansione di Cassiano, nostro uomo di fiducia.
Una mattina partimmo mio padre, Cassiano ed io col calesse per andare nella piana della Cornia. Era abbastanza fresco, anche se non ricordo la stagione. La cavalla procedeva a trotto e tutto filava tranquillo. Ad un certo punto il quadrupede alzò la coda ed io pensavo, e forse anche gli altri, che dovesse defecare; invece improvvisamente cominciò a scorreggiare e purtroppo l’aria che emetteva era abbondantemente accompagnata da pezzetti di feci, che, a causa della velocità si venivano a depositare addosso a noi. Cassiano fece fermare la cavalla, ma ormai era tardi. Guardai mio padre, che più di tutti era stato investito dalla scarica fatale, e aveva la barba tutta piena di pezzetti di merda equina. Quando glielo dissi mi obbligò a toglierla pezzetto per pezzetto e volle la mia assicurazione che l’avessi rimossa tutta.

Paolo Caterini

L' Osservatorio Ornitologico Toscano e la sua storia

La migrazione degli uccelli che percorrono due volte l’anno, in primavera e in autunno, migliaia di chilometri per andare a riprodursi al nord e quindi tornare a svernare al sud, è un fenomeno che ha sempre affascinato fin dai tempi più antichi l’uomo che, appena ne ha avuto la possibilità e gli strumenti, si è adoperato al meglio per studiare tale fenomeno. Per questo sono nati gli osservatori ornitologici.
L’inanellamento è stato ed è tuttora il metodo principale per lo studio delle migrazioni degli uccelli.
Consiste nell’applicare un contrassegno metallico, solitamente in alluminio, alla zampa del volatile; tale contrassegno porta inciso il nome della stazione ornitologica che ha effettuato l’inanellamento
ed un numero progressivo che permetterà poi di ritrovare, sui registri della stazione, i dati relativi al giorno dell’inanellamento, alla specie, al sesso dell’uccello e alla località del rilascio in libertà.
In questo modo è possibile conoscere le rotte migratorie quando alcuni uccelli inanellati vengono catturati dai cacciatori i quali, attraverso le loro organizzazioni, segnalano luogo di cattura e dati dell’anello.
I primi esperimenti al riguardo risalgono al 1899 per iniziativa dell’ornitologo danese Mortensen.
In seguito sorsero gli osservatori ornitologici in particolare nell’Europa settentrionale, fra i primi quelli di Rossitten (Germania), di Budapest (Ungheria), dell’isola di Helgoland (Germania), poi si moltiplicarono in tutta Europa e nell’America del Nord.
In Italia i primi esperimenti scientifici si ebbero nel 1928 , ma in seguito gli osservatori ornitologici italiani divennero tra i più attivi in Europa. Il primo a sorgere, e per molti anni il più noto, fu l’Osservatorio del Garda (Salò BS); sorsero in seguito quello di Castelfusano (Roma), quello di Ancona, quello di Genova e infine nel 1933 quello di Pisa.
Il suo fondatore, il prof Francesco Caterini, lo chiamò inizialmente Osservatorio Ornitologico di Pisa perché l’attività e quindi le catture degli uccelli da contrassegnare avvenivano esclusivamente in provincia di Pisa. Nel dopoguerra il nome cambiò in Osservatorio Ornitologico Toscano perché le catture avvenivano tramite vari collaboratori anche in altre province toscane.
Dal 1933 tale osservatorio ha sempre svolto il suo compito. La passione del suo fondatore per tale lavoro scientifico era immensa e ha sempre trovato collaboratori validissimi che lo hanno assecondato con entusiasmo. Il primo tenditore con le reti è stato Ivo Zannini, figura eccezionale di cacciatore/tenditore, forse tra i più esperti del pisano. Questi trasmise la sua arte ad Alvaro Conticini che ha seguitato fino ai suoi ultimi giorni di vita a catturare ed inanellare uccelli.
Il prof. Caterini è stato coadiuvato negli ultimi anni della sua vita nella direzione dell’osservatorio dal figlio prof. Antonio, che ne ha preso il posto dopo la sua morte avvenuta nel 1980. Egli ha portato avanti il lavoro del padre con la stessa passione e competenza fino alla sua prematura scomparsa, avvenuta a soli 49 anni nel 1992.
Tutto il lavoro fin qui svolto dai Caterini padre e figlio non è andato però perduto perché l’osservatorio ha seguitato la sua attività, aggiornandola con le tecniche di cattura più moderne, grazie all’interessamento e alla passione di Riccardo Gambogi, che è stato il principale promotore della creazione della sede dell’Osservatorio Ornitologico Toscano Francesco Caterini qui in San Rossore.
Paolo Caterini

domenica 1 giugno 2008

I richiami in gabbia nella caccia al capanno

La legge italiana sulla caccia consente ai “capannisti” di usare come richiami gli uccelli in gabbia, che, previo trattamento particolare, emettono il canto d’amore in periodi diversi da quello della riproduzione e cioè la primavera. Nel periodo del passo dei turdidi (tordi, tordi sasselli, merli e cesene ) in ottobre/novembre, tali uccelli ingabbiati vengono sistemati in posizione strategica , ognuno nella propria gabbietta per far sì che gli uccelli di passo vengano attratti dal canto, inusuale in tal periodo, e si posino sugli alberi vicini alle gabbie dove vengono facilmente abbattuti con una fucilata a fermo.
In quasi tutti gli stati dove esiste una legge sulla caccia i richiami vivi sono proibiti, mentre sono consentiti i richiami artificiali (uccelli meccanici e anche films sonori). Ciò soddisfa anche le esigenze degli animalisti che anche qui in Italia hanno sempre combattuto contro la cattività degli uccelli.
Gli uccelli da richiamo da mettere in gabbia per farli cantare hanno una loro storia.
Per far sì che cantino in autunno invece che in primavera e quindi incuriosiscano al massimo i migratori convincendoli ad avvicinarsi per vedere di cosa si tratta, in passato si praticava il sistema della “chiusa”. In primavera i maschi (perché solo loro cantano) appena iniziavano a cantare
venivano sistemati in un ambiente completamente buio e lì smettevano il canto. Ad ottobre venivano riportati alla luce e riprendevano a cantare non capendo più che stagione fosse. Prima ancora si adottava un pratica crudele accecando i soggetti. Sempre in passato la caccia era consentita a moltissime specie di piccoli passeracei e quindi tale sistema era molto diffuso.
Oggi si possono cacciare solo i turdidi e le allodole e anche per queste si usano i richiami in gabbia anche se non si spara a fermo come per i primi.
La “chiusa” oggigiorno non è più di moda e gli uccelli vengono indotti a cantare fuori stagione con trattamenti vitaminici e ormonali che certamente non fanno bene alla loro salute.
Si può anche tentare di fare una stima dei turdidi abbattuti in una stagione di caccia con questo sistema e purtroppo saremmo su cifre enormi; ritengo diverse centinaia di migliaia, anche perché, come ho detto, gli si spara a fermo con medie di abbattimento assai vicine al 100%.
Purtroppo gli ambientalisti spesso, specialmente in Italia, fanno grandi discorsi teorici senza avere alcuna nozione di quello che è la realtà. Infatti sono certo che è completamente ignorato quanto sopra descritto. So che alcune guardie verdi vanno a misurare le gabbiette dei tordi e fanno le multe se sono al di sotto della misura minima . Sarebbe ora che gli ambientalisti si informassero dettagliatamente e si dessero da fare per far cessare tali pratiche. Invece si battono solo per l’abolizione della caccia tout court e in tal modo non ottengono niente o quasi. Come in tutte le cose si deve operare per gradi e con competenza, altrimenti non si ottengono risultati.

Paolo Caterini